Tokyo: reportage stile Lost in Translation

Reportage dalla Tokyo di Lost in Translation, pubblicato a febbraio 2004 su Panorama.

Testo e foto Davide Burchiellaro – 2004 per Panorama ©tutti i diritti riservati
Quando la luna si alza tra il Dokomo Building e il municipio di Tokyo, la cantante nera newyorkese Angela Stribling, fasciata da un abito rosso con spacco, intona The long way home di Norah Jones. L’accompagnano il pianista Stephan di Francoforte e il trombettista Phil di Toronto. Il cameriere Takaji, ossequioso e sghignazzante fino alla molestia, ti serve un whisky Suntory, rigorosamente invecchiato 12 anni, con ghiaccio. E in un attimo ti ritrovi sul set di Lost in Translation, l’ultimo film di Sofia Coppola: una storia d’amore ironica e crepuscolare ambientata proprio tra i lounge bar del lussuoso hotel Park Hyatt di Tokyo e i quartieri forsennati, alieni e contraddittori della capitale giapponese.

Il bar bamboo del Park Hyatt Tokyo

Qui, al 52esimo piano dell’albergo progettato da Kenzo Tange, accovacciato al bancone di marmo nero del New York Grill bar, sei un gaijin (letteralmente uno
straniero in trasferta a Tokyo) esattamente come il protagonista Bill Murray. Come lui, in uno stato di torpore da jet lag che spinge a espressioni lobotomizzate, osservi i movimenti di questo microcosmo di luce soffusa, delimitato da due enormi pannelli rossi e gialli firmati dall’italiano Valerio Adami. Cerchi sguardi con lo sguardo. Ma invece dell’annoiata biondina Scarlett Johansson intercetti la solitudine dei manager, le sigarette al mentolo di un paio di prostitute vestite Prada e il silenzio estatico delle coppiette giapponesi che, dopo il successo del film, visitano il bar con devozione, ordinando i cocktail celebrativi appena inseriti nel menù: il Lost in translation (whisky, saké, liquore alla ciliegia) e il Golden globe (whisky, Cointreau, succo di limone), meglio se accompagnati da prosciutto e Parmigiano Reggiano come nel film.
Oltre la vetrata, 300 metri sotto questo rifugio global di Tokyo, pulsa il quartiere di Shinjuku, con la sua orgia sensuale alla Blade Runner: tutto ideogrammi e figurine manga, le cantilene cavernose dagli altoparlanti che fluiscono dalle sale giochi, i locali estremi per ogni gusto sessuale, i karaoke, i megastore tecnologici Yodobashi, la puzza insopportabile della minestra di maiale filtrata (una varietà di ramen) quella dei chioschi di yakitori che grigliano frattaglie di pollo 24 ore su 24 e quella dei negozietti di bassotti rinchiusi nelle gabbiette. La vera Tokyo è là sotto, il gaijin ne è affascinato e turbato, intuisce che va presa a piccole dosi. Perché a sentirsi straniero fin dall’inizio basta la camera 4710 del Park Hyatt. Ed è da qui che comincia il viaggio di Panorama.
Una stanza del Park Hyatt Tokyo
Una stanza del Park Hyatt Tokyo

Supercamera con vista.

Bisogna affrontare lo scoiattolo infreddolito che dai boschi innevati di Hokkaido arriva dritto in camera attraverso il televisore ultrapiatto Hitachi e ti fissa interrogativo. Non serve distrarsi, lui è sempre lì che guarda, mentre l’impianto stereo diffonde musiche new age attraverso le casse nella stanza, nel bagno e nell’armadio. Il pulsante della tenda automatica è accanto al comodino e ci si può giocare per ore. In bagno, tra vasche idromassaggio e una collezione di oli essenziali, spunta il wc sormontato da telefoni Bang & Olufsen e munito di tastiera a otto funzioni «lavasciuga».
Nell’abitacolo dell’astronave-gabinetto (vedere riquadro qui sotto) si scopre che è possibile portare il cerchione alla temperatura ideale. Poi si può passare alla plancia di comando della funzione bidet: dal water spunta un perno rotante che fa zampillare l’acqua a tre velocità e in modalità spray. Segue tasto dry: un getto d’aria calda che asciuga e profuma l’ambiente. Dopo tanto comfort hi-tech, l’ospite, già immerso nella Tokyo di Lost in Translation, si aspetta l’arrivo della prostituta isterica, disponibile all’insolito rito del farsi «stlapàle calze», una delle scene più comiche del film. «È l’unico servizio che non offriamo», ridacchia l’australiano Michael Golden, direttore-camere del Park Hyatt, «l’offerta qui fuori è piuttosto ampia». In compenso, fa sapere, c’è il pacchetto Lost in translation da 5 mila dollari: cinque notti in una suite, shiatsu, lezioni di galateo giap, scorribande notturne.

Sesso supermarket.

Che vagheggiare sesso in camera sia un’ingenuità lo si capisce varcando la soglia dell’inferno di Kabuki Choo, zona a luci rosse confusa tra tempietti scintoisti e sushi bar. Vi si accede attraversando un ponte dove ogni giorno camminano un milione di giapponesi e oltrepassando la piazza di Shinjuku, dove i megaschermi sui grattacieli vomitano dinosauri a cristalli liquidi. A Kabuki dopo le 7 di sera si fa conoscenza con il tipico chappatsu di Tokyo, letteralmente «colui che si tinge i capelli di marrone chiaro o biondo, porta la cravatta nera e traffica nella prostituzione».
A gruppi di tre i chappatsu offrono lavori part time alle studentesse dei college: devono poi offrirsi agli uomini nella divisa d’ordinanza, minigonna, calzettoni blu, mocassini. Accanto, i locali: sotto c’è il bar, sopra due, tre piani di stanzette. All’ingresso le bacheche stile agenzia immobiliare espongono ragazze con nome, specialità, prezzo (dai 40 euro circa). Sotto la patina da Disneyland del sesso si nasconde una guerra furibonda. I locali di Kabuki, un tempo monopolio della mafia giapponese, oggi sono preda della malavita cinese, più spietata, che ha assoldato manodopera proveniente dalla Russia e dall’Africa. Donato Di Pasquale, un gaijin di Los Angeles di origine salentina, indica il suo locale preferito, il Kohko.

All’accoglienza un paio di kenyoti presentano il loro must: un drappello di corpulente infermiere finte di Ulan Bator con spalle da rugbiste, che, dice il kenyota, «fanno l’amore alla mongola». Fuori, per le strade, le prostitute di riserva: «Siamo a disposizione» spiega Majiko da Hiroshima, «se il padrone del locale ci chiama al telefono noi corriamo». Il pronto intervento è richiesto solitamente da locali ormai famosi in tutto il Giappone. Come Hinumaru Cabalet. A tutti gli effetti un teatro di striptease, se non fosse che tra le poltrone in platea girano prostitute che praticano sesso orale. Un menu con 30 ragazze spiega che se ci si affida al caso il prezzo è di 8 mila yen (75 euro), se invece si sceglie una ragazza precisa si passa a 10 mila.
Attraversando i viali di Tokyo che conducono all’altro quartiere caldo, Shibuya, ci si imbatte in bancarelle di porno fumetti, di fagioli edamame caramellati e di legal drugs, pasticche fosforescenti: ogni droga vera è bandita. Dopo un tempio dedicato a vari animaletti del bosco divinizzati, ecco la love hotel area, alberghi dedicati al sesso. Tutto è automatico: si tocca un pannello con la foto della stanza e una macchina sputa le chiavi. Nei love hotel si usa presentarsi ben attrezzati. Dunque proliferano i pornoshop. Come il Tota Garden, letteralmente Giardino selvaggio. Il commesso parla italiano: «Piacere, sono Jas e sono selvaggio». Agli stranieri mostra orgoglioso la mercanzia: finto Viagra e una gamma di falli di ogni sembianza etnica. C’è anche un reparto usato dove si possono comprare minigonne macchiate, mutandine usate in barattolo e body da ginnasta «usati e sudati per un intero anno scolastico» (oltre 200 euro).

Molestatori e maestri di bondage.

Roba molto venduta agli appassionati cultori del sesso con le studentesse. Ovvero ai chikàn, letteralmente, «quelli che danno appuntamento alle collegiali e che le pagano per farsi molestare sui treni». Per loro, a Shibuya come a Shinjuku sono fioriti internet point dedicati. Da una bacheca si sceglie la ragazza e la si contatta. Quelle disposte alla molestia si fanno trovare all’ingresso della linea Yamanote. Il tutto dura un’oretta tra appostamenti e inseguimenti che culminano con scambio di effusioni spinte. La società Nakan si è attrezzata: offre locali dove la messinscena è più comoda. Ovvero finti vagoni che simulano movimento e rumore dei treni.
Ai margini del quartiere e di questa sessualità compulsiva che pervade Tokyo, c’è il Gay district, dedalo di locali di 10 metri quadrati dentro alveari multipiano. Stanze che ospitano party trasgressivi, durante i quali i gay giapponesi emulano l’orgoglio virile d’Occidente: travestimenti alla Freddy Mercury, impalcature di bicipiti e addominali gonfiabili, canzoncine di Gloria Estéfan. Nei sotterranei, altri locali, della stessa grandezza ma più torbidi, dove il sesso dei partecipanti ai giochi non conta più e il guru è il Rope sensé, letteralmente il maestro legatore di corde: è a lui che si sottomettono coppie e singoli per il rito del bondage all’orientale.

Orsetti e karaoke.

Dall’inferno a luci rosse si esce con i vestiti intrisi di puzza di ramen e fritto mista a fumo. La stanza al Park Hyatt è davvero un rifugio, almeno fino al giorno dopo, quando al ristorante la Girandole, con vista monte Fuji ritrovi la fauna dell’hotel: 40 esemplari di convegniste di Kyoto con tailleur nero e risata standard. E l’esercito dei camerieri che fanno inchini da ernia del disco. Il concierge Kenemura, che insiste a farsi chiamare Kenneth, ti porge le mappe con gli indirizzi per una nuova giornata nella Tokyo di Lost in Translation e ti affida a un tassista con Crown Comfort verde o rosa, una specie di Fiat 124 con sportello automatico.

Il tipico taxi, una Crown Crawford con sportello automatico
Il tipico taxi, una Crown Crawford con sportello automatico

Lui intavola un discorso in giapponese ridendo, ma riceve in cambio risatine ebeti. Le strade sono piene di squadre di pulitori di interstizi di piastrelle che lucidano i marciapiedi. L’indirizzo è Building 109, Shibuya, detto shafu shop, letteralmente megastore per ragazze di facili costumi. Dentro, una ventina di negozi: da Flag le ragazze fanno incetta di scarpe tacco 12 intarsiate con gattini. Al Nail bar si istoriano le unghie con fantasie manga, mentre da Inside sex si fa shopping di lingerie su manichini fluorescenti.
Game Arkade, il tempio del Gambling
Game Arkade, il tempio del Gambling

Dagli otto piani pulsanti di musica techno si esce ubriachi e pronti per un’altra orgia sonora, quella delle sale giochi di pachinko e slotoo, le macchinette mangiasoldi. Da Adores e da Game Arkade, dove Coppola ha preso in affitto una sala, c’è il gioco del batterista virtuale e del dj. E il gambling, la pesca all’orsetto di peluche, praticata da businessman e bambini. Chicca dell’Arkade è la boxe: c’è uno sparring partner disposto a prendere gragnuole di pugni per 5 minuti a mille yen (8 euro). Formidabile contro le frustrazioni da ufficio. Ma il modo più amato dai giapponesi per eliminare le frustrazioni è il karaoke.
vista dal park hyatt
La vista dall’ottavo piano del Park Hyatt

Per affittare una party room bastano 5 mila yen (40 euro). Nella stanza del Karaoke Kan di Shibuya, dove Bill Murray canta le vecchie hit anni 80, ci sono gli americani Peter e Steven, la giapponese Kayo, la canadese Erika. Dopo tre birre Kirin e una serie di canzoni di Frank Sinatra le coppie perdono ogni inibizione: «È così che finisce degnamente un karaoke» spiega Kayo.

Mangiatori di ramen.

La domenica di Tokyo non si distingue dagli altri giorni. Salvo nei parchi dei templi, dove Charlotte-Scarlet Johansson si fa ammaliare dai riti scintoisti. Qui le ragazzine passano la giornata tra picnic e travestimenti. Il rito coinvolge le 15-22 enni fanatiche dei manga: per impersonare le loro eroine si spendono centinaia di migliaia di yen nei negozi Mandarake.

Travestimenti
Travestimenti

Ma l’esibizione sul ponte tra Yoyogi park e la via griffata Omotesando è fondamentale per acchiappare i fidanzati. Ed ecco spuntare angeli con la pistola, eroine come Sailormoon in versione porno, amanti di Lupin III e combattenti alla Kill Bill.
Un tipico ristorante di ramen
Un tipico ristorante di ramen

La domenica è anche giornata di grandi abbuffate. Giornata di mangiatori di ramen, zuppe con con spaghetti lavorati a mano, di tempura di sperma di merluzzo fritto, il seishi, o di baccalà alla kyotese. O, ancora, di pasti romantici, che gli stranieri consumano al ristorante Shabu Shabu, quello scelto da Sofia Coppola.
La specialità è la carne. Le foto delle fettine sono tutte uguali, ma la differenza è grande: puoi ordinare il manzo di Kobe, allevato a birra e massaggiato a mano, o il maiale di Okinawa, che rende longevi. L’odore di questa carne venata di grasso rimarrà addosso per ore.
Ed è al Narita Airport, al momento del ritorno da Tokyo a Milano, che ogni odore, ogni suono e ogni luce al neon si affastella in testa. Ed è qui, davanti ai ghetti che ospitano fumatori disciplinati, che il gaijin capisce che in Giappone è, e sempre sarà, uno straniero.

GUIDA ALL’USO DI UN WC GIAPPONESE IN 5 MOSSE

Per imparare il perfetto utilizzo di un water giapponese, serve più o meno una mezz’oretta. Ecco come cavarsela in cinque mosse.

CERCHIONE

1) Il cerchione sopra la tazza può essere riscaldato. Per evitare ustioni è consigliabile prima di sedersi trovare il pulsante di regolazione della temperatura.

PLANCIA

2) La plancia di comando posta alla destra del water mostra tasti espliciti che attivano la funzione superbidet elettronico: lo zampillo ha tre velocità e può essere oscillante o fisso.

Un tipico water de luxe giapponese
Un tipico water de luxe giapponese

3) Selezionando la modalità «spray» si ottengono mini docce molto piacevoli. Ma anche in questo caso conviene stabilire, mediante il tasto sulla sinistra, la temperatura dell’acqua.
4) Al termine del lavaggio, con il pulsante «dry» è possibile attivare il getto d’aria per asciugarsi. Anche in questo caso ci sono varie opzioni di velocità.
5) A destra del wc, un’altra tastierina offre il servizio camuffamento. Nato probabilmente da un’esigenza molto giapponese di privacy, questo marchingegno offre la possibilità di celare all’esterno ciò che si sta realmente facendo in gabinetto. Dunque: un tasto per il rumore del finto sciacquone, uno per la profumazione d’ambiente, e uno per attivare e disattivare l’impianto musicale