Livia Firth sulla tragedia di Rana Plaza

Livia Firth a un anno di distanza dalla tragedia del Rana Plaza

Quando la defnizione schiavi dello shopping perde il suo significato ironico, arriva la signora FIRTH. A un anno dalla tragedia di Rana Plaza e a pochi giorni dal primo FASHION DAY contro la moda usa e getta, la pasionaria del green annuncia nuove battaglie. Contro i furbetti dell’eco-marketing

Nel settembre del 1969, proprio mentre Livia Firth veniva al mondo, Paul Simon stava incidendo The Boxer. Una ballata simbolo della discesa tra gli umili ma anche di un pugile incapace di mollare il colpo. Uno che ha preso tante scoppole. «But the fighter still remains»: lui è ancora lì, in piedi. È vero, il paragone è iperbolico e le coincidenze pretestuose. Eppure ogni volta che incontri Livia Firth hai davanti una gran combattente.

Ci hanno provato in tutti i modi a farne carne da gossip. Perché lei sul red carpet ci va, con o senza il marito Colin, ma è sempre chiaro a tutti che non è lì a far sorrisi da photocall. E tantomeno da testimonial finta-involontaria di qualche griffe. Si è inventata il green carpet, ha sfilato con abiti etici, ha contribuito ai successi Oxfam (e supportato la nascita di The Circle Italia con noi di Marie Claire) per una moda rispettosa della terra e del lavoro delle donne. «Managing ethics and aesthetics» era il suo motto nel negozio Eco-Age di Chiswick (Londra) e se, dopo aver coinvolto tutto il business della moda mondiale, stilisti, imprenditori, celebrity e mammesantissime dei giornali, vedi nascere ilFashion Revolution Day (24 aprile), vuol dire che hai fatto davvero un pezzo di rivoluzione.

C’è voluta anche una scoppola, sì. E grossa. Più che per lei, per tutto l’allegro (fino ad allora) mondo della produzione “delocalizzata” di abbigliamento: il massacro del Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh. Dove, il 24 aprile del 2013, 1129 operai, soprattutto donne e bambini, sono morti nel crollo della fabbrica degli schiavi. Lavoravano principalmente per Primark, Mango e Walmart. Ai primi la tragedia è già costata 12 milioni di dollari di risarcimenti. Livia non è una di quelle che sbottano: «Te l’avevo detto, io». Oddio, qualche volta a marito e figli, lo farà, visto il tipino. Ma avrebbe di certo potuto dirlo in quella triste occasione. Perché la sua battaglia era cominciata proprio lì, dopo un viaggio shock con Oxfam, nel 2008: «Ho visto guardie armate alle porte per controllare le uscite e le intrusioni dei ficcanaso. Operaie con due permessi al giorno per andare in bagno lavorare al ritmo di 100 pezzi prodotti in un’ora. Nessuna ventilazione e sbarre alle finestre, così da non poter fuggire in caso d’incendio.

E un coro unanime di donne che imploravano “Per favore non dite niente, non possiamo perdere il lavoro”». Durante il Fashion Revolution Day migliaia di persone hanno indossato abiti al contrario, mostrando le etichette e quindi la provenienza dei loro vestiti. Contemporaneamente, a Copenhagen, si è discusso (e anche litigato, e anche furiosamente) di moda etica al Fashion Global Summit. Sono stati mostrati video agghiaccianti sulla tragedia (ancora visibili sul sito del Guardian ), mentre Raweena Aulakh ha raccontato sul Toronto Star tre giorni di lavoro da infiltrata in una fabbrica bengalese: basti sapere che la sua caporeparto, Meem, aveva 9 anni. Forse perché storie come questa continuano a essere raccontate anche dopo il disastro, Livia sa di non avere allori sui quali dormire: «Siamo in un momento entusiasmante. E anche molto pericoloso» dice, lancia in resta.

«Adesso il consumatore è più intelligente. L’incidente di Dacca ha mostrato a tutti il lato oscuro del fast fashion. Peccato che in Italia non se ne sia quasi parlato. Tanti brand si sfilano da questo sistema produttivo e le persone mettono in discussione la “democraticità” del fast fashion». Se non capite cosa sia la democraticità di un bene, cominciate a guardare il prezzo. «Sì perché è quando le persone pensano che sia un diritto comprare una maglietta a 5 euro che scatta la trappola. È l’evoluzione del consumo degli ultimi 25 anni. Ma che democrazia è mai questa se acquisto un capo a 5 euro e l’operaia che lo produce in Bangladesh prende 5 centesimi?».

Naturalmente. Ma, diciamolo, gli italiani sembrano fregarsene. Almeno a giudicare dall’affollamento dei negozi delle grandi catene fast fashion. Perché col cibo è stato facile: un conto è spendere 10 euro per una retina di limoni sostenibili da Eataly, un altro conto è rinunciare al pantalone moda da 19.90. Eppure, Livia è ottimista: «Se si fanno domande su ciò che mangiano, presto se le faranno su quello che indossano». Ma allora dov’è tutto sto pericolo? «Nel fatto che è iniziata l’era in cui le multinazionali dello shopping usano la sostenibilità per fare marketing e pulirsi la coscienza». Leggiamo cartelli pieni di balle, vediamo contenitori “falsi” per abiti usati, doniamo quote alla cieca, allora.

«Dipende, ma è certo che non basta dire che si usa cotone organico o percentuali di materiale riciclato. Si può sfruttare il lavoro anche con il cotone biologico, eh. Il pericolo sta nel proclamarsi etici lasciando però intatto il vecchio ciclo produttivo». But the fighter still remains e Livia ha i guantoni sul tavolo. La missione si fa dura. «All’inizio lavoravo per connettere la gente all’origine di quello che indossa, usando anche il tappeto rosso, svelando i buoni e i cattivi sfruttatori. Ora c’è da sfatare il mito del fast fashion e la comunicazione che confonde la gente, rassicurandola su uno shopping che spesso finge di essere etico».

Può anche andare peggio di prima. «Se il sistema Bangladesh è uno scandalo, beh, sappiate che c’è un brand che sta trasferendo le fabbriche in Etiopia, perché  lì costa ancora meno». Ci sono due libri sulla scrivania e la signora Firth dice che sono entrambi da leggere per capire: quello di Edoardo Nesi, Storia della mia gente e quello di Guido Maria Brera, I Diavoli. Uno è sull’estinzione dell’artigianato toscano dall’arrivo dei laboratori cinesi e l’altro  svela l’immoralità del mercato finanziario. Ma entrambi parlano di un «meccanismo che schiaccia, che ci fa sentire ricchi consumando o spendendo soldi non nostri, facendo rate o riempiendo l’armadio di roba low cost».

Compriamo cose che non ci servono, con soldi che non abbiamo, per far colpo su persone che non ci piacciono. Lo diceva Tyler Durden in Fight club, lo scrive oggi sui muri il graffitaro Banksy, sostituendo “cose” con “spazzatura”. «Il punto è questo, la spazzatura», incalza Livia, «Ci siamo dimenticati che i nostri nonni non avrebbero mai comprato scarpe da due lire, perché sarebbero durate meno e il risparmio sarebbe finito nelle casse di un ortopedico. Noi quarantenni siamo in tempo a cambiare perché quella lezione l’abbiamo avuta, non compravamo un vestito nuovo ogni volta che c’era una festa. Oggi c’è una fame insaziabile di capi usa e getta».

Un loop perverso, perché un suo stop rischia di creare disoccupati. O no? «Ma le prese per i fondelli devono essere smascherate! Si compilano rapporti su crescita della popolazione e calo delle risorse, per spingere il riciclo. Ma il problema è l’eccessiva velocità con la quale consumiamo. Fattore che nessuno denuncia». Possiamo vantarci della preziosa e lenta artigianalità italiana, ma è la cultura del riuso quotidiano che pare finita: «Trovami uno che si fa ancora rammendare i calzini…».

La signora Firth comincia ad avere un’idiosincrasia per la definizione di “moda ecologica”: «È fastidioso definire così il buonsenso. Com’è fastidioso notare che in Italia non ci sono dei visionari. Ho lavorato e parlato con i designer di casa nostra, ma nessuno è mai andato oltre la chiacchiera, a esclusione dell’haute couture. Ovvio, lì parliamo di volumi minimi e di sartine precisine ». In questo risiko, le vittorie della fondatrice di Eco-Age si concentrano all’estero: «Il gruppo Kering, con Pinault (Stella Mc Cartney, Gucci, Balenciaga e altri, ndr) fa politiche di piccoli passi, ma efficaci. Chris Bailey di Burberrys è un illuminato ma non comunica le attività etiche perché teme lo accusino di fare marketing».

Però prima o poi arriveranno tutti. Sarà un effetto domino: «La forza di uno trascina gli altri». La sua ultima alleata, Caroline Scheufele di Chopard è la dimostrazione che si può fare. Con lei ha presentato la Palma d’oro del 2014 in oro etico, estratto senza sfruttare nessuno: «Caroline ha capito. Non può cambiare tutto il sistema subito ma ha cominciato convertendo una miniera, poi lavorerà sulle altre. È un’apripista per tutta l’alta gioielleria». Certo, convincere qualcuno che non deve rendere conto ad altri è più facile, «Ma lei è anche una donna, penso che mi segua anche per questo, oltre a un altro buonissimo motivo». L’etico paga: «Caroline ha pensato di vendere di più. E così è stato. Non c’è altro modo, non siamo più abituati a comprare cose con una bella storia dietro. Ma un oggetto con dietro un mondo vero è l’unica àncora di salvezza». Sì, vogliamo storie, non balle.

Davide Burchiellaro per Marie Claire (6/2014)  ©Hearst Marie Claire Italia 2014