Attente al luppolo: una case history familiare che dà la birra ai maschi e che racconta una nuova agricoltura

Sono sorelle, sono romagnole, e non hanno avuto paura di osare. Le sorelle Nati hanno trasformato l’azienda di papà in un gioiello. Perché una cassa di luppolo pesa meno di una cassa di pesche.

In Italia ci sono posti che mettono di buon umore a partire dai cartelli stradali. Come Grattacoppa, frazione a meno di 13 km da Ravenna. Siamo in piena bassa romagnola, nove mesi inverno e tre mesi inferno di caldo afoso si sarebbe detto prima del climate change. Non sappiamo le origini del nome di questo luogo ma sappiamo che la “coppa” in romagnolo è quella parte del collo che sta tra la testa e la schiena. E sappiamo che a grattarsela, con dita delicate, sono gli innamorati, in un rituale erotico campestre che porta ad altro.

Questo stesso lessico affettuoso sembra aver permeato l’avventura delle sorelle Nati, professione contadine. Che alla terra hanno sempre riservato affetto e delicatezza, come gli è stato insegnato da genitori tradizionalisti e sperimentatori, custodi e frantumatori di regole allo stesso tempo, caratteristica che descrive benissimo una certa romagnolità.

L’azienda Bellavista delle sorelle Nati

A Grattacoppa ha sede l’azienda agricola della famiglia Nati. Specialità: luppolo. Cinque ettari e un marchio, Luppoli italiani. E tre sorelle, diverse, entusiaste: Elisa, Elena, Michela. Tutte nate tra il 1970 e il 1980, sono state per anni svegliate alle cinque per la raccolta delle pesche e se ne sono talmente tanto lamentate e nutrite che oggi considerano un plus essere cresciute così, con la West Point del frutteto. Una madre, Anna, 72 anni,oggi nonna di Marta ed Elena, (ventenni, già innamorate del luppolo), gran sfoglina di pasta all’uovo e piade, ma soprattutto leader carismatica dell’azienda familiare.

È stata lei a inventarsi la svolta furba del luppolo, frutto di un un intuito e di una capacità di osare tipica delle arzdore problem solver. «Lei ha idea di quanto pesa una cassa di pesche?». No, «ecco vede, io ho cercato di piantare qualcosa che a parità di reddito facesse faticare meno, me e le mie figlie». Ebbene, una cassa di luppolo, fiore essiccato che dà l’aroma alla birra, pesa cinque chili, un decimo rispetto a una cassa di pesche.

«Se c’è qualcosa di davvero femminile in questa svolta è proprio la capacità di trovare idee per risolvere i problemi» dice Michela, 47 anni, presidentessa della Luppoli Italiani. Ha preso il diploma di perito aziendale prima di appassionarsi all’idea di mamma. «Ero in gita su un pullmann che attraversava la Slovenia» dice la madre Anna. «Non ho mica viaggiato tanto, io. E quindi stavo con la testa attaccata al finestrino. È lì che ho visto per la prima volta i campi coltivati a luppolo e ho avuto l’illuminazione».

Era da subito certa che suo marito Dino, scomparso da dieci anni ma idolatrato in famiglia come si fa con il più geniale dei capostipiti, avrebbe approvato. Lui che fu il primo in Romagna a pensare che i suoi pomodori erano eccellenti e perfetti per essere inscatolati industrialmente (Oggi finiscono da Mutti). Lui che non aveva mai avuto paura di osare coltivazioni nuove e richieste come il basilico.

Luppolo: un lavoro leggero ma pesante

Sarebbe però un grave errore bollare la coltivazione del luppolo come qualcosa di semplice e veloce. I tempi di questa coltura sono lenti, ogni anno il luppolo deve essere ripiantato, la prima fioritura non è buona per la birra, ma quei germogli sono ottimi per le frittatone da portare nel campo e da condividere con chi lavora: «Credo che creare convivialità sia uno degli elementi di forza che le donne possano portare nell’agricoltura» dice Elisa Nati, 45 anni, perito agrario. I germogli del luppolo, detti bruscandoli, sono simili ad asparagi selvatici. Carlo Cracco ci condisce le capesante, Giancarlo Perbellini ci fa il risotto. Ma scommettiamo che la frittatona campestre delle sorelle Nati sia un’esperienza anche più inebriante.

Poi però il gioco si fa duro e le dure cominciano a giocare. Con orgoglio ci aprono le porte di una vecchia stalla, che ora, in inverno, ospita mostri dormienti, ovvero macchine agricole dalle braccia meccaniche inquietanti, trattori e scale. Perché il luppolo maturo sta lassù, a tre metri di altezza e bisogna arrampicarsi per raccoglierlo. Il team matriarcale è fortunato. Le varietà di luppolo tedesco arrivano a otto metri, mentre qui si coltivano il Chinook, il Centennial e il Nugget, di origine americana. Non è l’altezza a fargli evitare le piante teutoniche: «No no, il fatto è che qui non attecchisce, ci vuole un microclima più montano».

La prima annusata di luppolo

Nel dicembre del Covid, la bassa romagnola restituisce un paesaggio da fotografie di Luigi Ghirri e l’essiccatoio, delicatissimo tendone che prepara i fiori di luppolo per la birra artigianale o industriale, continua generosamente a offrire un aroma incredibile che riporta al piacere della Prima sorsata di birra descritta da Philippe Delerm. «Lo sa vero che il luppolo è una cannabacea?», dice Elena, 49 anni con sorriso malizioso. Quell’odore in effetti si trasforma in buon umore, ma non c’entrano gli alcaloidi. È tutta soddisfazione, che si legge nei volti abbronzati di queste donne potentissime, forti e radicate nel territorio.

Che cosa abbia portato Elena, che ha fatto il liceo artistico a Ravenna e che studiava i mosaici di Galla Placidia, a ritrovare se stessa negli ettari di terra familiare è un dilemma inutile da sondare, perché parla di protocolli biologici e venti da Est con la naturalezza di chi non ha mai veramente abbandonato la campagna.

Nella divisione dei ruoli, rigida ed efficace, è Michela la manager, mentre Elisa è quella che pensa all’innovazione, a questo kaizen (il continuo migliorarsi, in giapponese) che ha permesso alla famiglia di tentare con successo la strada del luppolo. Attualmente le circa cinque tonnellate prodotte ogni anno finiscono nelle birre artigianali Amarcord, le più famose e premiate della regione. Al proprietario non è parso vero di poter creare una birra con luppoli a km zero.

Il reportage di Isabella Franceschini

Ora in questi visi invernali, più rilassati e incorniciati da messinpieghe precise, è difficile scorgere le fatiche, le alzatacce, l’organizzazione orchestrale del lavoro al luppoleto a cavallo tra l’estate e l’autunno. A esprimerle bene sono le immagini di queste pagine, scattate durante l’ultima raccolta da Isabella Franceschini. Le ha pedinate in tutte le fasi con alte dosi di empatia e complicità femmina. Dice Michela: «Ci ha seguito nei giorni più belli, con il dito pronto a scattare, gli occhi e il cuore pronti a fermare gli istanti che meglio ci rappresentano».

un’immagine del servizio di Isabella Franceschini (diritti riservati)

Metterci occhi e cuore: sono passati 70 anni dalla Riforma Agraria. Settanta anni durante i quali probabilmente nessun contadino romagnolo si è mai lasciato andare a toni così delicati. Le donne in agricoltura ci sono sempre state ma quel mondo era regolato dai maschi. Ruvidi e silenziosi. Poco conviviali. Gran lavoratori. Le sorelle di Hopland (questo il nome del lavoro della Franceschini) minimizzano la loro rivoluzione: «Che cosa abbiamo portato di femminile nei campi? La pausa caffè, quelle chiacchiere necessarie a sfogare la tensione e la stanchezza. Un rito incomprensibile per un contadino romagnolo», ridacchia Elisa.

La parità di genere secondo la dottrina romagnola

Sanno benissimo di essere andate oltre. Se Riccardo Bellosi, anche lui agricoltore, marito di Elisa è un paladino della parità e del rispetto, a fatti non a parole, vuol dire che le sorelle Nati stanno lasciando il segno nella comunità locale: «Lui è un grande punto di riferimento per tutte, un uomo di grande esperienza e generosità». A Elisa inizialmente Riccardo non piaceva, erano cresciuti insieme e lo vedeva come un amico. Ma il papà Dino si è molto impegnato a convincere il giovane Riccardo a non mollare, perché lei era perfetta per lui. «E sì, aveva ragione».

«Certo questo ambiente è ancora molto maschile» commenta Michela, che sorride di certi episodi che vive tutti i giorni e che derubrica come inevitabili cascami di una vecchia cultura di campagna dura a morire. «Capita che vada a comprare dei pezzi di ricambio per il trattore e che, mentre spiego quello che mi serve, il meccanico risponda rivolgendosi direttamente a Riccardo che sta dietro di me e che notoriamente non capisce niente di meccanica».

Alla fine, dopo il tour, non si può dire di no a una merenda romagnola, con bottiglie di birra da “provare” e ciccioli, salame, culatello, ossocollo, formaggi, piade ai grani antichi. Tutto autoprodotto. L’assembramento è giudizioso, nonostante le birre. Ma oltre all’aroma del luppolo, qui si respira futuro. Con la teenager Marta che racconta la sua tesina di liceo sul fiore della birra e sua sorella Elena, che studia tecnologie alimentari all’università.

Anche se è inverno hanno molto da fare le donne di casa Nati. Perché il luppolo è un po’ come il maiale, non si butta via niente. E il 2021 sarà tempo di innovazioni e nuove collaborazioni. C’è da affinare l’olio essenziale, spremuto a freddo sulle colline di Cesena e fare i test all’Olfattorio di Santarcangelo, dove Baldo Baldinini studia e miscela essenze per liquori e spiriti. Liberi.

(via Marie Claire n° 2 febbraio 2021)