Intervista a Lia Piano in una Planimetria felice

È molto ironica, parla con gli animali e pensa che il Beaubourg di Parigi sia uno zio. Lia Piano, figlia di Renzo, vede il mondo con gli occhi di una bambina che adora il papà. E alla casa felice della sua infanzia dedica il primo romanzo.
Davide Burchiellaro per Marie claire di agosto 2019 Foto ©Stefano Goldberg

Quando un genovese ti dice: «Eh ma oggi c’è macaia», non sai più che piega prenderà la conversazione. L’afa che trasforma l’umore dei liguri attanaglia anche Lia Piano, 47enne, figlia dell’architetto Renzo, oggi senatore a vita, e direttrice della Fondazione Renzo Piano a Parigi. È al suo debutto con un romanzo, Planimetria di una famiglia felice (Bompiani, in uscita il 28 agosto). Un libro ambientato nella casa della sua infanzia, proprio a Genova. C’è macaia, ma Lia parla e la nebbiolina lattiginosa attiva ricordi, storie sgangherate e, sì, felici. Di animali umanizzati, fratelli maschi irruenti, un padre geniale e testardo come un ragazzino.

 

Se è vero che la creatività si misura dal rimanere bambini, quanti anni ha la Lia che ha scritto il romanzo?
Direi sette. Il fatto è che sono quarant’anni che ha sette anni. Ci ho provato in tutti i modi, non vuole crescere. Allora mi sono arresa e le ho lasciato la parola. E lei ha scritto un romanzo guardando il mondo da un metro di altezza.

Dichiari che Planimetria non è autobiografico. Eppure, tra cagnolini e topi che cadono dal cielo, sembra che della tua vita ci sia molto…
Il libro nasce da un fatto vero. Mentre mia madre smontava la casa della nostra infanzia e traslocava, per la prima volta l’ho vista vuota e disabitata. Mi sono detta: non può finire così, devo salutarla. La casa è infatti l’unico personaggio realmente esistito: metro per metro, altezze, volumi, distanze, tutto vero. Per il resto, si tratta di un romanzo.

Le due Lia, quella che scrive con la leggerezza di una piccola e quella che dirige la Fondazione Piano, ogni tanto si parlano?
Vanno abbastanza d’accordo, con gli anni ho imparato a fidarmi incondizionatamente della bambina che sono stata. Le scelte più importanti le lascio fare a lei. Io mi limito a eseguire.

Che cosa non ti piace dell’una e dell’altra?
Da bambina odiavo le mie orecchie a sventola. Da adulta ho imparato ad amarle: sono anarchiche, vogliono andare dove pare a loro. Se le due Lia si incontrassero litigherebbero sulle orecchie, penso.

Chi è lo psicologo che ti ha detto: Lia, butti fuori tutto scrivendo un bel libro?
A Parigi sono andata in analisi. Uno psicologo lugubre come il due novembre. La poltrona sfondata, le macchie sul soffitto, la penombra. Alla decima seduta sono scappata.

Chi ti ha insegnato che non vale la pena prendersi sul serio?
Nelle famiglie numerose non c’è scampo. Io ero la più piccola, unica femmina: appena prendevo la parola i miei fratelli urlavano: «Ha detto una scemenza!». Se fossi stata permalosa sarei morta. Ho imparato che se riesci a ridere di una cosa significa che hai la forza di cambiarla. Vale anche per se stessi.

Come prenderanno i tuoi il fatto che li hai messi un po’ alla berlina?
Loro mi conoscono, io li conosco. Fidati, ridono.

Tuo padre ha sempre approvato le tue relazioni sentimentali?
Ha sempre attentato alla vita di tutti i miei fidanzati, senza esclusione. Ma poi ha sempre approvato. Quasi sempre.

Sei ancora la sua bambina eh?
Sì. Sbaglia anche l’età. Ventisei, trentadue. Per lui non sono ancora riuscita ad arrivare a quaranta.

È ricambiato, se per stargli vicino hai di fatto inventato la Fondazione Renzo Piano.
(Ride) La Fondazione me lo ha fatto conoscere non solo come papà ma anche come professionista.

Gli animali sbucano dai tuoi racconti, per te sono come le persone?
È un regalo dell’infanzia. Ho vissuto circondata da animali. Così tanti che nel libro ne ho esclusi molti. Non ci sono gatti (per loro scriverò un romanzo dedicato). E non c’è il pipistrello Malima, che avevo addomesticato e che mi volava intorno alla testa mentre giravo per casa. A Pippo, il mio primo cane della vita, ho dedicato il romanzo. Il miglior psicologo che abbia mai incontrato era un gatto rosso irascibile: Nando. Vado avanti?

È vero che nelle famiglie disfunzionali si sviluppa una maggiore creatività?
Tutte le famiglie sono disfunzionali. Le fanno apposta.

Soffri della sindrome dell’impostore, gli altri ti vedono al top e tu temi di averli presi per il culo?
Ogni mattina mi guardo allo specchio e mi dico: oggi ti beccano e ti buttano fuori. Dalla scuola, dall’università, dalla Fondazione, dalla Bompiani, dalla lezione di yoga, dal mondo. Vivo nella certezza che stiano per smascherarmi. La sera mi dico: anche oggi l’hai scampata.

Quali sono i pregi e i difetti che ti accomunano ai tuoi? La sublime testardaggine di mio padre (pregio). La risata di mia madre. E nei difetti: rasento l’ossessione. E posso essere molto, molto severa. Dai fratelli ho imparato a essere pronta in dieci minuti. Dodici se mi trucco.

Quali emozioni ti provoca vedere il Beaubourg progettato da papà dalla tua finestra di Parigi?
È un po’ come gli zii che incontri al pranzo di Natale. Hai presente?

Qual è la ricetta antinoia che ti hanno insegnato o che hai elaborato?
Annoiarsi non è brutto. Si guarda fuori, si fissa il soffitto. Si sta seduti dondolando i piedi. A me piace annoiarmi, dopo un po’ mi vengono grandi idee. A volte perfino giuste.

Da laureata in Lettere alla Sorbonne: dietro una grande scrittrice c’è sempre una grande madre o un grande padre?
Per non parlare dei nonni.

Un’infanzia felice è la premessa di una vita felice?
Sì. Ma anche i bambini tristi hanno una seconda possibilità: non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice.

Quanto sono importanti le amiche per te?
Sono per la sorellanza militante: le mie amiche sono le depositarie della parte più vera di me. Senza finzioni, senza ricatti. Dare, senza togliere. La forma più alta di amore.

Che cosa rappresenta la vela?
Mio padre ci portava in barca ogni estate per un mese. Senza mollarci mai su una spiaggia. Diceva che la spiaggia è l’oppio dei popoli.

Le tue regole per praticare l’ironia di questi tempi?
Mai prendersi sul serio. Sospettare di chi si prende troppo sul serio. Scappare da chi non mi prende abbastanza sul serio. E comunque aveva ragione Pasolini: «Seri bisogna esserlo, non sembrarlo».

Il personaggio di Maria (nel libro una tata calabrese) potrebbe procurarti insulti social e accuse di classismo…
Agli insulti social Maria risponderebbe: «Cornuti!».

Sei di fretta, mi stai sbolognando?
No, è che devo fare la valigia e trovo solo costumi di dieci anni fa.

Dove vai?
A Olbia a prendere il Kirribilli (la barca di Renzo Piano, ndr). Passo qualche giorno con papà poi farò una traversata sconclusionata verso Genova con le amiche.

Una volta ti lamentavi del fatto che tuo padre, che gira con un metro in tasca, ti prendesse continuamente le misure. Ha smesso?
Mai. Del resto non ho ancora smesso di crescere.

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