Gianni Biondillo

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Davide Burchiellaro per Marie Claire (10/2006)  ©Hearst Marie Claire Italia 2006

Il giallista di Quarto Oggiaro svela la sua Milano segreta

MIiano deserta di cani sgozzati e marocchini accoltellati tra il cemento di Quarto Oggiaro. Una Milano nove mesi inverno e tre mesi inferno di zanzare e afa. Ma anche una Milano morale e solidale. Sontuosa nei suoi palazzi, popolata di donne forti, eleganti. E bellissime. Le migliori del mondo. Gianni Biondillo, «sempre più romanziere e sempre meno architetto», è uno scrittore che ama intrecciare i luoghi comuni della metropoli, gioca a confermarli, a smentirli e a ribaltarli. Senza smettere mai di amare questa città. Ha 40 anni e una moglie, Elena, sua prima lettrice e «grande amore milanese». Ha scritto tre romanzi, due noir e uno tutto al femminile, Per sempre giovane, dove l’io narrante si chiama Francesca. E con le sue due professioni sogna di «restituire a Milano fiducia nella sua bellezza».
Biondillo, questa è un’intervista su Milano e i milanesi. Guardi, io sono il milanese perfetto.
Però con quel cognome… Sono nato a Milano da madre siciliana e padre campano. Quindi sono la storia della città riassunta in una persona. Se per essere milanesi servissero quattro nonni milanesi, sarebbe una città semideserta, popolata solo da famiglie nobili decadute o non troppo decadute e molto ricche. Mediamente i più antipatici. Che trovano disdicevole parlare il dialetto.
Un dialetto un po’ arrogante, secondo il luogo comune del «ueh te… baüscia». No, un dialetto bellissimo, una lingua, molto musicale, morbida, francese, mi spiace non sentirlo più parlare. Nella smania di sentirsi metropolitani i milanesi l’hanno perso. Già a Torino è diverso, ma l’accettazione dell’immigrato, l’integrazione, là, è stata più difficile.
Che fa, sfodera il principe dei luoghi comuni, «Milan col coer in man… »? Sì, con orgoglio. Nella storia è stato vero. C’è stato un momento in cui il motore si è avviato e tutti erano parte di questo progetto che era trasformare l’Italia. È servito molto all’integrazione. Ci si credeva. Mia madre è siciliana, ha fatto la fame, quellla brutta. Non tornerebbe nel suo paese, è grata a Milano. È milanese.
Ossia i veri milanesi sono gli immigrati? La maggioranza di quelli che amano Milano ci è venuta o, ancora oggi, viene da fuori. La ama perché è la città che più restituisce quel che le si dà.
Nei suoi libri però gli immigrati s’ammazzano. I problemi ci sono, ma oltre al romanziere faccio l’architetto e vedo che ancora oggi vince la logica del metterti alla prova. Nei cantieri, l’imprenditore edile di Caserta che una volta faceva il manovale ora assume il tunisino, il parchettista serbo, il piastrellista bosniaco. Etnie diverse unite da questo gusto del far le cose bene, milanesissimo.
Sarà… però, almeno nei luoghi comuni, uno scontro culturale resiste, la rivalità Milano-Roma. Milano puntuale, Roma in ritardo. Milano lavora, Roma si diverte. È assurdo comparare le due città. Milano è talmente logica da essere stupida. Ci sono circonvallazioni concentriche e assi di penetrazioni, alla fine finisci sempre in centro. Rispetto a una città costruita su sette colli, che ha 3mila anni, il confronto è ridicolo. Quanto al divertirsi, Roma è capitale, è internazionale, Milano ha un divertimento solipsistico, birra, happy hour, pizzette rinsecchite. I paragoni non reggono. *PAG*
I romani però, anzi gli italiani, i paragoni li fanno. Immancabilmente arrivano al padre dei luoghi comuni, Milano è brutta. Milano non ha mai pensato di dover essere bella e di mostrarlo ai turisti. Ha sempre pensato di dover essere attiva. Così ci sono palazzi liberty magnifici che non sono visitabili perché sedi di banche o assicurazioni. Però li tengono benissimo. A Roma ho visto capolavori lasciati cadere a pezzi.
Come si convince un non milanese che la città è bella?
Intanto bisogna farlo venire, la ricezione alberghiera è ottima, il sistema di trasporti funziona. Poi basta portarlo in via Torino, fargli vedere Santa Maria presso San Satiro, San Sebastiano, la deposizione del Bernardino Luini che c’è in piazzetta San Giorgio, poi le Colonne di San Lorenzo, e gli fai scoprire una città bellissima.
Perché nessuno lo sa? Perché nella sua smania di rinnovamento Milano ha distrutto cinte murarie, tombinato le vie d’acqua. Eravamo una Venezia nel cuore della pianura, ci aveva lavorato Leonardo Da Vinci. Tutto è stato chiuso perché c’era da fare, «gh’era de fa, fieu». Poi, come succede sempre, il milanese ne ha avuto nostalgia. Ha sempre nostalgia di ciò che distrugge con allegria.
E adesso? Oggi i milanesi stessi non amano più Milano, scappano. Hanno elaborato questo rito sacro del week end. A forza di indirizzare tutto sulla produzione fine alla produzione, ci siamo dimenticati che esiste il bello. Che si può scoprire in una giornata di sole l’architettura alto-medio borghese di Porta Venezia: un’edilizia fine ’800 inizio ’900 di grande qualità. Mai urlata, decorosa.
Il dovere dell’understatement. Molto milanese. Arriva dal motto dei Borromeo, “humilitas”, mai gridare la ricchezza. Palazzi austeri con dentro cortili sfavillanti. I proprietari magari hanno tre Ferrari ma nascoste in un’autorimessa a Cassano. Il fighettismo di Verona, Modena o Brescia qui non c’è.
Dove si socializza a Milano? A Milano non esistono le piazze per farlo. Non le ha, ci sono svincoli chiamati piazze. Adesso le stanno reinventando per nostalgia. Per esempio piazza San Fedele, oggi molto carina, è sempre stata un parcheggio. La socialità era altrove, negli attici per la borghesia, nelle fabbriche per gli operai. Luoghi del lavoro. Oggi, a parte le celebrate macchinette del caffè degli uffici milanesi, è tutto perduto. Le fabbriche non ci sono più.
Ma sono rimasti, per il resto d’Italia, i luoghi comuni o i miti, dalla fabbrichetta del cummenda alla grande Milano industriale. L’immaginario non si smuove dai capisaldi: nebbia, panettone, fabbriche e duomo. Il duomo è impacchettato, la nebbia è sparita da anni, le fabbriche sono svanite con la nebbia, il panettone lo fanno a Verona. Questa Milano di Rocco e i suoi fratelli non esiste più. Ma l’immaginario è fermo lì. Peggio: l’immaginario collettivo italiano si è dimenticato di Milano. Prendiamo le fiction tv: i set sono a Napoli, a Torino, a Terni. Questa città ha avuto delle trasformazioni pazzesche. Guardo il mio quartiere: cresciuto sulle ceneri del Lazzaretto manzoniano, si è contaminato con una casbah: ristoranti eritrei, russi, arabi, peruviani. E questa Milano chi la racconta?
I romanzieri, Biondillo, Colaprico, Dazieri… Ci proviamo. Tra l’altro è un processo stimolante perché molto milanese: c’è tutta una imprenditorialità egiziana, tunisina, rumena che è entrata nella logica del «lavoro-guadagno-pago-pretendo». *PAG*
E le eccellenze di Milano, la Scala, il design e la moda? Prive di stimoli? Incidono poco sulla vita dei milanesi. La Scala resta un posto per pochi che la frequentano da generazioni. Bastò trasferirla fuori dal centro e fu subito una tragedia per le sciure che ci andavano a piedi. Il design? Dov’è? C’è l’arredo urbano più brutto d’Italia nella città con la più alta concentrazione di studi di design. La moda? Senti gli stilisti che parlano della periferia e si impegnano a uscire dal Quadrilatero. Ma poi al massimo si spingono in corso di Porta Ticinese. Se vuole fare del bene a Milano la moda deve avere il coraggio di andare fuori dal centro. Tra l’altro loro, gli stilisti, sono il simbolo di come questa città premia i talenti esterni. Ma c’è una Milano che da tangentopoli in poi ha perso il gusto di scommettere sul futuro. Ha avuto paura. Appena si faceva qualcosa di innovativo partivano gli attacchi. E via con le battaglie per il verde con quattro fanatici che abbracciano gli alberi e le siepi spelacchiate.
Si dice che a Milano non c’è verde. C’è un patrimonio di viali che sono monumenti arborei. Nel centro pochi, perché la città ha sempre pensato che piantumare fosse una perdita di tempo e di reddito. Ma Milano è ben più grande, ormai arriva a Bergamo, Varese, Piacenza e lì il verde c’è.
Questa è fantageografia. La città ufficiale è centripeta, ma ce n’è un’altra, fatta i di nuclei esterni, la Brianza, Como, Orio al Serio, Varese. Questa città-rete, all’interno è piena di verde. È una città interprovinciale. Lì si deve investire, fare come a Bilbao che grazie a un museo ha trasformato una città dimessa nella seconda città spagnola più visitata.
Un Guggenheim a Quarto Oggiaro? Una mega Brera a Quarto Oggiaro o alla Barona o a Garbagnate. I vecchi palazzi storici non sono nati per essere musei. Bisogna restituire a Milano l’idea che Milano è bella con una politica culturale alta. E i milanesi devono tornare a guardare per aria, riappropriarsi della città, riscoprire affetti, luoghi, posti, negozi, persone… tram.
Tram? Sì, non dobbiamo aspettare che li compri il comune di San Francisco o che li mostrino nei film. Sono i veri oggetti di design. Ma c’è il progetto di eliminarli.
Meglio togliere l’ago e filo in piazza Cadorna? Quello è un piazzale anonimo e la scultura di Oldemburg è divertentissima. I milanesi hanno perso il senso dell’umorismo. I bambini la adorano. Ma loro, come gli anziani, non sono considerati.
Si dice che i milanesi non conoscano e non considerino i loro vicini. Falso, questa è la città delle case di ringhiera, inventate da un genio della socializzazione. Grazie al balcone comune, tutti si conoscono e si aiutano. Se però vivi in un quartiere molto borghese, il rischio di anonimato c’è.
In Per cosa si uccide ha dedicato una pagina appassionata alle donne di Milano, come sono le milanesi? Sono bellissime. Si dice siano fredde. Eric Clapton dichiarò in un’intervista il suo amore per le donne di Milano, le definiva «calde e mediterranee».
Soffrono perché gli uomini nel resto d’Italia guardano le donne negli occhi mentre a Milano gli guardano le scarpe. Non è questione di moda o di feticismo, ma di passo. Il motivo è in una canzone di Ivano Fossati: «le donne di Milano han quel passo di pianura che è bello da vedere che è bello da incontrare».
Sono eleganti? Un’eleganza faticosissima. Mai vista una milanese sciatta. C’è un’attenzione spasmodica ma sempre senza che questo studio d’eleganza si noti. Non hanno un’uniforme.
Però si vestono sempre di nero. Non è vero. Gli unici che si vestono sempre di nero sono gli architetti.
Come si riconosce una milanese da una non milanese? La non milanese è strombazzata: più ombretto, tacchi più alti, più gioielli sfavillanti.
Alle milanesi non mancano i gioielli. Non si vedono. Ho un’amica che fa annerire l’anello perché brilla troppo. Quando l’oro riacquista lucentezza, via, di nuovo dall’orefice a bruciacchiarlo. Questa è l’eleganza milanese. Chi non la capisce non ne è degno.
Le milanesi nella coppia vogliono comandare. Più che altro creano rapporti di non sudditanza. Se fai il maschio latino ti ridono dietro. Hanno le palle. Non sono quelle che si aspettano l’apertura della portiera. Al ristorante pagano. Ed è un messaggio importante: «Non mi metti i piedi in testa». Le amo, non c’è niente da fare.
Mangiano solo sushi e insalatone. Perché aiutano nella gestione di quella magrezza che è una nevrosi della città e che si sposa con la ricerca dell’eleganza.
Quindi ammette che i milanesi sono nevrotici. No, non provi a fregarmi. Credo che vivere a Napoli scateni molte più nevrosi.
Ottobre 2006
Davide Burchiellaro