Colin Firth

Colin artworkDavide Burchiellaro per Marie Claire (11/2011)  ©Hearst Marie Claire Italia 2011

Un caffè con Colin Firth

Un’ora prima di intervistare il premio Oscar Colin Firth mi metto nei suoi panni: la moglie Livia, nel farmi accomodare in piscina, dove giustamente si svolgono le attività principali della famiglia Firth in vacanza, mi porge tre costumi e tre t-shirt dal guardaroba del marito. Pochi minuti dopo sono su un matelas con boxer da bagno rossi che mi fanno molto rapper stagionato. La vista è su una valle umbra perfetta come quella stampata sui surgelati. Sullo sfondo, Città della Pieve. L’attore sbuca da un cespuglio di acacia in t-shirt e All Star ai piedi. Qualcuno chiede: «Caffè?». Caffè. Ottimo per cominciare: lui è trade ambassador per Oxfam proprio per le coltivazioni di caffè.
«Il caffè non è soltanto un prodotto, è un simbolo. È una spia di come l’economia occidentale sfrutta i paesi poveri. Dalla coltivazione all’asciugatura, fino al trasporto, i chicchi non valgono nulla. Sono le aziende in Europa e Usa che con la tostatura gli danno valore. Il mio maestro è stato David Williamson. Era un manager della Matthew Algie, tra le più grandi torrefazioni della Gran Bretagna. Forniva caffè a tutti i bar e i grandi store nel centro di Londra. Sa che anch’io ho avuto due bar? Si chiamavano Progreso, a Notting Hill e a Covent Garden. Vendevo caffè equo-solidale. Per capire la filiera sono stato in Etiopia. Poi mi sono trovato davanti a un muro. Volevo comprare una macchina per tostare il caffè, per permettere ai produttori laggiù di raffinare in loco i chicchi, e lasciare loro più guadagno. Niente da fare. Per fare arrivare in Europa il caffè lavorato le tasse erano altissime e non conveniva più a nessuno. È così che funziona, capito? E così milioni di persone rimangono nella povertà. Prendiamo una qualsiasi materia prima, dal petrolio ai diamanti, dall’oro all’uranio: in Africa c’è. Ma per lasciare il continente deve perdere valore. E le fregature che infliggiamo non finiscono lì, perché la nostra economia cerca mercati per ciò che produciamo in più. E se in America producono troppo riso, ecco che lo piazzano nei paesi produttori di riso, magari sottoforma di aiuti umanitari, creando un eccesso di offerta che stronca i prezzi. Così una famiglia haitiana oggi mangia riso americano al posto di quello che si produce in casa. I consumatori devono fare delle scelte. Con il caffè non è facile, non si può sempre controllare cosa ti danno al bar. Io bevo, come fanno quasi tutti, spesso senza saperlo, Arabica Robusta. Che è ottimo ed è il più economico. Ma tra il 1999 e il 2000 si è consumata la crisi dell’Arabica Robusta. Tanti paesi emergenti hanno cominciato a produrlo e il prezzo è crollato. Nessuno se n’è accorto e anzi, il marketing ci ha propinato nuovi “gusti” di caffè, modificando la miscela di sempre. Sembro un intenditore eh? No, non sono fanatico, ne bevo uno al mattino e uno dopo pranzo. Espresso, non sono uno di quei tizi che si vedono nei film, che girano per gli uffici per ore con il bicchierone in mano. Cerco marchi affidabili, questo sì. Pare che Illy sia fair trade, rispettoso di un commercio equo. Voglio crederci».
Una campanella ideale ci sposta al desco, sotto una veranda affacciata su un orto aromatico. Seduto a un tavolo di legno riciclato, continuo a pensare a questa storia dell’Arabica Robusta, il caffè mi ha reso nervoso. Anche quella del riso è una brutta equazione, come quelle che non vengono mai a scuola. Niente riso nei piatti, ma una zuppa di zucchine bio con spezie indiane, vero cibo glocal. A pensarci bene, tutta la famiglia Firth è un po’ glocal.
«Ho passato la mia infanzia in Nigeria, mio padre era un professore laggiù. Pochi ricordi ma intensi. Il mio amichetto Godfried, per esempio. Quando penso a lui, è come se ricordassi di avere discusso per ore e seriamente, dell’indipendenza della Nigeria dalla Gran Bretagna. E questo è impossibile, perché eravamo piccoli e io biascicavo poche parole in inglese e lui in lingua fulani. Forse abbiamo solo elaborato, con gli strumenti potenti e ingenui dei ragazzini, la differenza tra le nostre vite. Io frequentavo una scuola, lui un’altra. Lo vedevo andare via e mi dispiaceva non poter andare con lui. La Nigeria è anche paura, è una donna pazza che una notte sceglie l’amaca nella nostra veranda come bivacco e porta scompiglio. Abitavamo nel nord, a Zaria. A Lagos non sono mai stato. Ma è vero che oggi la cultura del paese si concentra lì. Amo la loro musica, sono stato fan sfegatato di Fela Kuti, di King Sunny Adé e di tutto il genere Jùjú. Adoro scrittori giganti come Chinua Achebe, o Ken Saro-Wiva, impiccato con altri intellettuali del Movement for the Survival of Ogoni. La Nigeria è l’esempio perfetto: paese ricchissimo, ma la popolazione non può godere di questa ricchezza. Non so se in Africa succederà qualcosa, come nel Maghreb. Però la situazione è migliorata, c’è qualche donna al potere e non c’è più quell’enorme numero di dittatori pazzi come negli anni 70-80, tipo Idi Amin o Bokassa o Abacha. Certo, c’è Mugabe… e pensare che era un intellettuale di sinistra…».
Parentesi wildlife n°1. Luca Firth, 10 anni, reperisce un ramarro di circa 15 cm, stecchito in circostanze misteriose. E mentre il padre mi racconta del bluff sulla cancellazione del debito al G8 di Gleneagles, nel 2005, il ragazzino pone domande scottanti tipo: può sezionare codesto sauro? Il padre liquida l’ ipotesi come «disgusting», ma io penso a quello spirito di avventura che si annida negli inglesi, quell’eredità giramondo così maledettamente invidiabile. Se passi l’infanzia tra la Nigeria e il Missouri e i tuoi nonni erano attivisti in India, non puoi avere la testa da provinciale.
«Sì, però guardi che io ero una mosca bianca e a scuola ero visto con sospetto. Davo troppa confidenza agli stranieri. L’Inghilterra degli anni 70 era razzista. Si ricorda John Barnes, trequartista nero del Liverpool? Al suo debutto, negli anni 80, è stato accolto con lancio di banane. Oggi la gente è cambiata. Chi facesse così sarebbe considerato, come direste voi, “troppo burino”, dagli stessi tifosi razzisti. Io ho avuto la fortuna di avere una casa sempre invasa da africani e indiani e una madre che faceva lobbying per i vietnamiti. Se hai amici di tutto il mondo ti ricordi il loro nome, non la loro nazionalità».
Chi è di sinistra è più intelligente. L’ha detto lui, veramente. Alla radio. Provocazione, sì. Ma poi ha coinvolto dei ricercatori. Se potesse “sezionare” qualcosa come suo figlio con il ramarro, forse lo farebbe con un cervello conservatore.
«Volevo solo studiare la diversità di atteggiamento. Com’era possibile che ci fossero persone che non la pensavano come me? Avevano bisogno di un medico. Un po’ come in Tutti dicono I love you di Woody Allen, la famiglia di sinistra vive il dramma di un figlio che diventa repubblicano. Poi gli scoprono un tumore, che, una volta estirpato lo fa “guarire” e tornare a sinistra. Io più che sfottere volevo lanciare un dibattito equilibrato a partire da uno studio scientifico. Ero certo che al massimo i ricercatori avrebbero trovato nel conservatorismo una causa come la depressione. Se uno è più felice è più facile che sia di sinistra, mi dicevo. Comunque la mia tesi era che il conservatorismo è legato alla paura. Pronto a cambiare idea, mi trovo il report dei ricercatori che, studiando un campione di 100 studenti, scoprono che il 90 per cento di quelli di sinistra hanno un’area del cervello, la corteccia cingolata anteriore, più sviluppata. Questa parte è deputata all’ottimismo e alla capacità di rompere con la tradizione. Nei conservatori è più sviluppato il lobo destro dell’amigdala, che è connesso alla paura. È semplicistico, lo so. Ma avevo ragione, sono malati! Lo studio è stato bollato come superficiale e realizzato con lo scopo di darmi ragione, il che è vero. Era un gioco. Però una base c’è. Ma per i risultati ci vorranno 30 anni, perché bisogna capire se le persone col tempo cambiano idea».
Parentesi wildlife n°2. Matteo Firth, 8 anni, reclama il diritto alla sessione di tiro con l’arco, attività che non è di sinistra o di destra, ma palesemente di centro. Mi sa che l’ intervista sta per terminare, parliamo di cinema.
«È una storia intricata. Si parla di infiltrati, di servizi segreti e di amicizia. La Talpa, il film tratto dal romanzo di John Le Carré, esce a fine anno. Dentro c’è un po’ di attualità. Lo spionaggio non muore mai, lo si vede dalla cronaca. Non c’è la guerra fredda ma abbiamo Assange e Rupert Murdoch il cui scandalo ci fa capire i problemi di pluralismo nei mass media. Anche qui in Italia, naturalmente. E poi, sì, torno con Bridget Jones. Se vuole sapere se ci torno volentieri, le dico che non mi viene naturale, ma la mia opinione non conta, perché la saga vive di vita propria. Ho avuto la fortuna di poter sempre alternare leggerezza e impegno. Le trentenni di tutto il mondo si sono identificate con Bridget, il personaggio ha una funzione sociale, catartica. Esorcizza problemi e inadeguatezze, dalla singletudine forzata all’ansia per l’orologio biologico. Dopo Il discorso del re ho cercato un po’ di leggerezza e l’ho trovata girando Gambit, con Cameron Diaz e la regia dei fratelli Coen. La leggerezza non c’entra con la sostanza, ci sono commedie molto sostanziose. Federico Fellini è il massimo esempio di quello che sto dicendo, Amarcord, uno dei più grandi film della storia, è una commedia. Ma ha il potere di scioccare. Talenti come Fellini sono irraggiungibili. Però in Italia ci sono bravi registi. Sì, sto parlando con qualcuno di loro per progetti interessanti. Ma nomi non ne faccio».
Ecco archi e frecce. Colin-Robin Hood è il mio maestro d’arco. Non scocco un dardo da quando ero uno scout che voleva far colpo sulla caposquadriglia dei Koala. Azzecco il bersaglio di paglia senza colpire forme di vita. «Bravo, non male, riproviamo?». Grazie, per oggi basta così.
Davide Burchiellaro

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