Negli slum di Kibera

©James Mollison/marie claire 2011
©James Mollison/marie claire 2011

 
Davide Burchiellaro per Marie Claire (6/2011)  ©Hearst Marie Claire Italia 2011

 In Kenya con Livia Firth

Si arriva a Kibera, l’enorme slum di Nairobi, a bordo di una Land Rover accessoriata con ganci e verricelli. Sembra quella con cui da bambino giocavi ai rangers. Dentro, una pattuglia di uomini e donne molto diversi, accomunati da qualcosa, ancora indefinito per avere un nome. Sensibilità ecologica? Senso di solidarietà? Voglia di guardare oltre il proprio naso? L’impatto visivo di un uomo che rovista nella spazzatura fino ad esserne avvolto non consente entusiasmi e il fuoristrada è un’astronave che protegge dalla puzza e dai colori accesi della miseria che scorrono in una “tv” formato finestrino. C’è Giuseppe Stefanel, l’imprenditore veneto della maglieria. Tutti lo chiamano “il signor Stefanel”, ma per umorismo e disponibilità è a tutti gli effetti uno della comitiva. Ha creduto alla causa di chi guida quell’astronave: Cristina Cisilino e suo marito Gerson Barnett, fondatori di Made, brand che ha per slogan “trade not aid” (commercio, non assistenza) e che proprio in una baracca di Kibera ha iniziato 5 anni fa la produzione di accessori moda e bijoux fatti riciclando rubinetti usati o pelli di mucche morte per la siccità. E sarà proprio l’azienda trevigiana la prima in Italia a inviare ordini di bijoux. Ci sono i giornalisti e i fotografi di Marie Claire, anche loro in missione: sono i laboratori di Made a produrre i bracciali che saranno sul nostro giornale con il numero di luglio. Ma a salvare tutti da quell’aria di perplessità è la “sostenibile” leggerezza di Livia Firth, che quei bracciali ha disegnato, ispirandosi a un simbolo africano il cui significato trasforma il monile in un monito: “la terra è sacra”. Quarantenne energetica e fondatrice di Eco Age, store londinese che vende prodotti sostenibili, Livia è moglie di Colin Firth, premio Oscar 2011 (Il discorso del Re) e uomo impegnato nella lotta alle ingiustizie. Livia cammina nel fango ed elargisce sorrisi da red carpet. Conosce il lavoro di questi operai e ha mostrato in mondovisione di cosa sono capaci: la notte degli Oscar indossava la Livia necklace, fatta di anelli luccicanti e e un cuore in soapstone nera, rigorosamente made in Made. E dichiarava: «Amo tutto di questi gioielli, il posto dove li fanno, la comunità coinvolta e i materiali utilizzati».
Com’è nato questo amore? In negozio ho cominciato a vendere le collezioni fatte con Peaches Geldolf e Alexa Chung. Poi ho voluto saperne di più, ho incontrato Cristina e ci siamo piaciute. Infine ho dato sfogo alla passione per le storie.
Sarebbe? Mettere la gente insieme, intrecciare le vite e i talenti, non riesco a farne a meno. Ho presentato a Cristina Laura Bailey, mia amica, ex modella e scrittrice. Hanno fatto una collezione insieme. Poi l’idea di realizzare qualcosa disegnato da me. Colpa di una moria di vacche.
Scusa? Sì, c’era tutta questa pelle sul mercato, la siccità aveva fatto strage di mucche Masai. Made mi ha proposto di fare una borsa per i negozi Whistles. Mi sono divertita molto.
Non avevi mai disegnato nulla? Mai. E non avevo mai comprato riviste di moda. Ero una produttrice cinematografica che faceva documentari politici.
Come si passa dall’impegno politico alla moda? È stata la politica ad avvicinarmi alla moda. Le donne dovrebbero ragionare: la moda ha un impatto sui diritti umani e sull’ambiente. Capito questo si capisce che la moda oggi è politica.
Ha a che fare con lo slogan “trade not aid” che si legge all’interno della Livia Firth bag? Esatto, il tema è “commercio e non aiuto” e vale per tutti, Africa, Cina, India. Bisogna aiutare i paesi a crescere ma nel modo giusto.
Non basta portare lavoro in quantità? Ora li aiutiamo con la produzione di massa. Si fabbrica per i negozi delle “high street”, che vendono fast fashion. L’obiettivo è vendere enormi quantità di vestiti a poco. E non si capisce più niente, ci sono 10 stagioni invece che due. Io ho visto le fabbriche in Bangladesh che fanno questo: brutto spettacolo.
I consumatori se ne rendono conto? In Italia il rispetto per la fabbrica artigianale è sacro. Si celebra la capacità unica di creare borse o scarpe rendendo ogni prodotto un’eccellenza.
Perché quando si va a produrre all’estero questo rispetto viene meno? La tecnica del ricamo delle donne indiane è pregiata. Eppure, quando acquistiamo un capo “made in India” il nostro cervello lo sottovaluta.
Più che la moglie di un premio Oscar sembri una intellettuale alla Chomsky, da chi hai imparato? Dal premio Oscar, mio marito, e da Chomsky, quando ci ho parlato.
Allora conviene fare un passo indietro, come sei diventata così? L’elemento di base è che sono una rompiscatole. Ho sempre fatto domande. Credo nei valori della giustizia, della democrazia e del rispetto. Poi è arrivato Colin. Uno che sa tutto. Uno con cui all’alba, radio accesa e iPad spianato, si parla delle scelte del governo o del nucleare. Uno super-impegnato e… super-impegnativo (ride). Essere sposata da 14 anni con lui mi ha fatto crescere.
Ha corretto un po’ di superficialità italica? No, anche mio padre è così. La differenza tra noi è che mentre Colin parla molto, a me piace mettere in pratica quello che ho capito grazie a lui. Dalle mail per le petizioni di Amnesty International alle dimostrazioni. Fino alla svolta, Eco Age.
Quando hai pensato di essere pronta per un marchio? L’idea è di mio fratello Nicola.
Come ti ha convinto? Ha 12 anni meno di me e dopo la laurea in economia è venuto da noi a Londra per un po’. Aveva scritto una tesi su La fine di una economia basata sul petrolio. Non voleva lavorare in banca e passava la vita su Google a cercare pannelli solari. Un giorno ci ha chiesto: «Ma se uno vuole comprare un pannello solare dove deve andare?». Ecco l’idea: un posto fisico per acquisti eco, visto che quel mondo era forte sul web. Era un’intuizione buona e l’ho affrontata con l’ottica da produttrice, l’ho aiutato. E mi ha incastrata.
La tua agenda e la tua esperienza saranno state utili, no? Conosco le dinamiche del commercio equo. Colin lavora per Oxfam (la confederazione mondiale delle organizzazioni per la lotta alla povertà, ndr), è il loro trade ambassador e si è specializzato in campagne sul commercio di caffè, cotone e cacao. Con lui ho viaggiato e incontrato tutti, dai politici ai contadini. Sì, conosco l’argomento.
Tra il cinema impegnato e il commercio equo alla fine hai scelto il secondo, pensi che sia la strada più efficace? Una tappa fondamentale nel mio percorso è stata produrre 5 anni anni fa il documentario In prison my whole life su Mumia Abu Jamal, giornalista nel braccio della morte. L’ho fatto anche con i soldi della Fandango, che non l’ha distribuito, nonostante le selezioni a festival come Sundance. Per realizzarlo ho girato l’America e conosciuto tipi come Alice Walker e Noam Chomsky. Mi sono reinnamorata degli Stati Uniti, del fatto che, nonostante Bush, ci fossero tante voci di dissenso. Mi è arrivato il messaggio che bisognava “fare”, che fosse cinema o altro. Vengo dall’Italia, dove il dissenso non esiste e ho sentito la spinta a uscire dal forte fatalismo che c’è.
Perché è così forte? Bisogna risalire agli anni Ottanta, alla tv trash. Era il momento in cui si cominciava a produrre ciarpame. All’università mi ritrovai a studiare il fenomeno Colpo Grosso. Tutto è partito da lì. Il fatto è che se se sei bombardato da quei programmi però il tempo è sempre bello e si mangia bene, alla fine vince il «chissenefrega». Così è l’Italia, odio la frase «Ma qual è l’alternativa?». L’alternativa c’è sempre.
Come si fa a evitare le eco-operazioni fatte solo per dare una verniciata mediatica a un brand? Cominciando a considerare il movimento non una moda ma un evento storico, come le grandi rivoluzioni. E lavorare per superarlo nel linguaggio. Per esempio mi sono rotta di due parole, “ecologia” ed “etica”. Voglio dare per scontato che tutto quello che compro sia etico. Da qui l’idea per un nuova linea che punti a bellezza e seduzione sostenibili. Sarà una sorpresa.
Siamo all’eco-sexy? Che l’eco possa essere sexy e sensuale è sempre stato una mia esigenza. Ma ho fatto di più: a Eco Age abbiamo organizzato corsi di sex appeal in collaborazione con Anita Roddick, del sex shop Coco de mer. Lei è attenta che anche gli accessori erotici siano sostenibili. In Italia la parola sexy ha perso leggerezza. La si lega a una figura di donna svilita dagli scandali. Penso che le donne abbiano il potere di non scegliere quei modelli. Non ho firmato proclami sul tema perché voglio poter protestare come cittadina, non come donna.
E l’uomo come ne esce? Forse femminismo e parità l’hanno confuso. Mi spiace che si sia persa la galanteria. All’inizio Colin non mi apriva la portiera. Temeva mi sarei offesa.
Altri difetti di un marito da Oscar? Bisogna ricordargli di non lasciare calzini o portare la spazzatura.
Come vivi i tuoi 40 anni? Sono il meglio: a 20 pensi di sapere tutto e non sai niente, a 30 devi districarti tra figli e lavoro. A 40 sai un sacco di cose, e sei ancora abbastanza in forma, almeno da poter suscitare, se ti spogli, il commento «Però… per essere una quarantenne…» (ride).
Che valori state passando ai figli? Per esempio resistere al “mi compri” sfrenato e fargli capire che i carciofi devono essere a km zero. Penso mi considerino una fondamentalista.
Che cos’è che ti fa più paura? Non avere abbastanza tempo per fare tutto.
Davide Burchiellaro